La priorità del restauro dei boschi ripali

Tema di attualità e nello stesso tempo esercizio dialettico ripetitivo: cosa si sarebbe dovuto fare e cosa si potrebbe fare di fronte agli effetti congiunti e devastanti di cambiamenti climatici e di alluvioni.

Pensare di mettere in atto misure efficaci, sperando in risultati nel breve periodo, contro gli effetti dei cambiamenti climatici non è ragionevole, mentre appare più realistico creare opere  di messa in sicurezza del territorio. Tra questi il restauro dei boschi naturali ripali e delle loro pertinenze per contenere i danni delle ricorrenti alluvioni. Argomento diverso da quello della rinaturalizzazione dei corsi acqua canalizzati e di quelli artificiali.

I boschi ripali, dal prevalente sviluppo longitudinale, sono sistemi dinamici di interfaccia tra un sistema terrestre e un sistema acquatico, oggetto di continui disturbi, con una loro specifica funzionalità, estremamente variabili nello spazio trasversale man mano che ci si allontana dall’alveo attivo. Sono importanti per la conservazione della diversità biologica, per la funzione di corridoi ecologici e paesaggistica, il controllo dell’inquinamento da concimi e diserbanti dei campi adiacenti, la ricarica delle falde idriche, l’alta produttività, e, nello specifico del tema affrontato, per l’immagazzinamento dell’acqua e dei sedimenti derivanti dal bacino idrico soprattutto durante eventi alluvionali: acqua che viene poi in parte rilasciata gradualmente, e in parte infiltrata nel terreno.

Boschi ripali lungo il Fiume Argentino (Calabria)

Va precisato invece che la vegetazione arborea nei corpi d’acqua artificiali canalizzati ha un effetto negativo, perché ostacola i flussi e può favorire le esondazioni. Per questo va eliminata, anche se si deve scontentare qualche uccello e qualche ecologista della domenica mattina.

Tutti i corsi d’acqua artificiali devono essere sempre ripuliti dalla vegetazione

Siamo di fronte a sistemi biologici che hanno subito profonde trasformazioni: dalle bonifiche, agli insediamenti di infrastrutture viarie e industriali, di centri abitati, con la sostituzione della vegetazione naturale in pioppeti, pinete, colture agrarie.

I boschi ripali attraversano tutto il Paese, ma non sappiamo in quali condizioni ecologico-funzionali si trovino dal momento che il tema del restauro ecologico non è stato una priorità né dei governi nazionali e regionali né delle istituzioni accademiche.

Ai fini del restauro occorre tener conto della peculiarità di questo complesso sistema ecotonale, della conoscenza del corso d’acqua (delle fasi dinamiche idrauliche e della variabilità dell’assetto morfologico dell’aveo) e della variabilità spaziale delle aree di pertinenza. Inoltre bisogna valutare gli effetti che potrebbero avere le varie tipologie di intervento sul piano ecologico e idraulico (deflusso idrico e erosione spondale) sia a monte che a valle del corso d’acqua.

Bosco planiziale nel Parco Nazionale del Circeo (Lazio)

Quali tipologie vegetali ricostituire?

Pensare di fare copia del mosaico vegetazionale esistente ab origine (ammesso che sia possibile) sarebbe pretenzioso e causa di possibili insuccessi. La logica è quella di innescare un processo, partendo dalla creazione di strutture biologiche iniziali semplificate e che si potranno arricchire e integrare naturalmente nel tempo e nello spazio. Le specie arboree sono diverse a seconda delle zone: farnia, olmo campestre, pioppi, salici, ontani, platano, frassino ossifillo, carpino bianco, acero campestre, quelle arbustive sono ancora più numerose (tra queste gli stessi salici arbustivi, tamerici, oleandro, agnocasto, ecc).

I moduli di impianto sono diversi e differenti da quelli geometrici sinusoidali, i più semplici da realizzare e da gestire, a quelli delle “macchie seriali”  (un nucleo centrale di specie  simili agli stadi più evoluti della vegetazione, circondato da fasce di specie progressivamente meno evolute). Anche le metodologie colturali sono specifiche per l’ambiente, ad esempio vanno evitate le pacciamature con film plastico, l’uso di esotiche invasive  ecc

Ricostituzione della vegetazione naturale in Val Padana

Qualunque sia la scelta operativa non va dimenticato  che qualsiasi intervento non deve limitare il deflusso delle acque e che il materiale “flottante” (tronchi e accumuli di vegetazione), trasportabile dalla corrente, rappresenta un pericolo perché può creare sbarramenti lungo il percorso del corpo idrico. Al riguardo va tenuto presente che i salici e  i pioppi hanno una vita media breve (10/20 anni) dopo di che tendono a deperire e a collassare, e che l’olmo, può  essere colpito dalla grafiosi che ne determina la morte. Nei limiti del possibile questo materiale va asportato periodicamente, proprio per evitare la formazione di una massa flottante.

Al di là delle tecniche colturali che sono note, della capacità progettuale che esiste e delle risorse finanziarie che al momento sembrano essere disponibili, vanno superati gli ostacoli della mancanza di piantine nei vivai e delle paludi della burocrazia.

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La coltura del salice da vimini nel restauro paesaggistico

Il genere Salix, include alberi, arbusti e suffrutici, i cui individui portano fiori, molto piccoli, privi di petali e riuniti in infiorescenze spiciformi, gli amenti. Sono specie dioiche, cioè i fiori dei due sessi sono portati da individui distinti. Un genere molto complesso, oltre che per l’elevato numero di specie, anche per la difficoltà di distinguerle a causa dei pochi caratteri diagnostici e per la frequenza con cui si ibridano. Il genere è diffuso in Europa, Asia e Nord America con circa 300 specie tra specie arboree, fruticose e suffruticose. Per l’Italia vengono ora riconosciute 43 tra specie e sottospecie autoctone, molte altre sono state introdotte come S. babylonica, mentre gli ibridi sono alcune decine.

Nel caso specifico del salice da vimini (indicato dai vecchi autori come Salix viminalis L.) si tratta di un alberello alto fino a 10 m. Poco longevo, ma a rapido accrescimento. L’areale è verosimilmente  euro-asiatico settentrionale; in Italia è presente solo allo stato coltivato. In realtà la posizione tassonomica è controversa perché sono stati propagati agamicamente soggetti caratterizzati dalla flessibilità dei rami che potevano essere cloni ibridi di diverse entità. Vimini si ottengono da una sottospecie vitellina (L.) Arcang. di Salix alba L.. dai rami giallo-arancio, ma anche da S. purpurea, S. trianda,  S.  daphnoides,  S.  caprea,  S.  elaeagnos, ecc.

Albero presente nelle regioni settentrionali e centrali fino a 1500 m, appositamente coltivato in caratteristici filari lungo i fossi e ai bordi dei campi.  E comunque nelle aree dove, per l’eccesso di umidità, non era possibile effettuare altre colture.

Pianta frugale, resistente alle basse temperature, esigente di luce e di terreni umidi ma senza acqua stagnante.

Le piantagioni di salice per la produzione di vimini sono governate a ceduo: a ceppaia o a capitozza.

Il prodotto più importante sono i vimini o vinchi (rami sottili, flessibili e resistenti lunghi fino a 2-4 m), ottimi per l’intreccio, per la costruzione delle nasse da pesca, ceste, panieri, recinzioni rustiche, mobili, per legacci. I vimini destinati ai lavori di intreccio devono essere molto flessibili, resistenti alla trazione, di colore bianco dopo la sbucciatura.

Vimini in inverno

I vimini si ricavano, nella tradizione toscana, alla fine dell’inverno (febbraio-marzo) dall’accornettatura, cioè da una potatura periodica, che si esegue a circa 1,50 m da terra rilasciando dopo il taglio un moncone, un “cornetto” appunto, di qualche cm.

Tipica accornettatura toscana

Il legno è tenero (la  massa  volumica  a  umidità  normale  varia  da  320  a  550 Kg/m3) e poco durevole. Per lungo tempo è stata impiegata la corteccia per molti usi, tra l’altro per abbassare la temperatura corporea. Da non dimenticare che i salici, più in generale, si prestano per la coltivazione del tartufo bianco, per la protezione degli strati superficiali del suolo, per scopi ornamentali sfruttando il pregio estetico di rami, foglie, fiori e il portamento.

Il salice si propaga facilmente per talea (e per polloni radicali). Le talee (lunghe 20-40 cm)  di 1-2 anni vigorose, sane, di medio calibro, sono prelevate da piante mature dopo la caduta delle foglie, vengono messa a dimora in autunno o primavera (allora conservate nella sabbia). La piantagione di soggetti sviluppati in contenitore può effettuarsi fino alla prima decade di maggio (Italia centrale).  Nei filari di ripa la distanza tra le piante era di 5-7 m.

Messa a dimora di soggetto allevato in contenitore

Le piantagioni di salice per la produzione di vimini sono eseguite, di preferenza, nei terreni a tessitura argilloso-sabbiosa o sabbioso-argillosa, freschi, profondi (> 60 cm) e permeabili. Trattandosi di una coltura stressante, sono importanti le concimazioni periodiche con i tre elementi principali: azoto, fosforo e potassio (6:8:10), e le zappettature attorno alle piante. Il ciclo colturale è annuale/biennale (dilazionabile fino a 3-5 anni). Il tempo di permanenza della coltura non supera i 25-30 anni.

La coltura del salice da vimini é praticamente scomparsa da tutta la penisola, così come era stata descritta da vari autori dalla fine dell’800 fino agli anni ’60 del ’900. La richiesta di vimini è crollata con l’avvento della plastica e con le trasformazioni viticole.

Sul piano storico-paesaggistico la coltura dei salici da vimini, da ceste, da pertiche rappresenta una testimonianza di antiche pratiche agrarie, quindi modelli colturali meritevoli di conservazione e di restauro.

Composizione di salice in una sistemazione paesaggistica

Per approfondimenti

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Il fattore tempo nel restauro delle foreste

Gli alberi sono molto longevi. Centinaia o migliaia di anni. La specie più longeva è Pinus longaeva con un’età di 4884 anni. Dati rilevati con metodi scientifici (dendrocronologici) parlano ad esempio di 1300 anni per il pino loricato, di 1050 per il larice, di 950 per la roverella, di 900 per il pino laricio, di 620 per il pino cembro, di 500 e oltre per il faggio, di 490 per l’abete bianco e via di seguito.

Il ciclo biologico di un albero, entro il gruppo e del gruppo entro la popolazione, passa attraverso delle fasi. Le fasi hanno un nome preciso, una caratterizzazione strutturale e una collocazione temporale nel ciclo plurisecolare di una foresta. Esse comprendono la fase di: rinnovazione, competizione, stabilizzazione, decadenza. La foresta è un sistema mutevole non soltanto secondo le stagioni (foreste temperate) ma nel corso degli anni. Nelle sequenze temporali della vegetazione si susseguono specie delle fasi iniziali (early-successional) e quelle delle fasi terminali (late- successional). E non è detto che queste ultime possano essere il riferimento per i primi momenti del restauro.

Le foreste hanno bisogno del tempo per poter evolvere passando da una fase strutturale all’altra, fino allo stadio più evoluto possibile in quel luogo e in quel momento. Una volta raggiunto  lo stadio più evoluto  le  variazioni  strutturali  sono  più  lente e sono indotte da disturbi naturali a bassa intensità (crollo di singoli alberi o di gruppi di alberi) o a grande intensità (tempeste di vento, incendi, attacchi di funghi o insetti, frane, valanghe, ecc.).

Le fasi rappresentano un ciclo temporale durante il quale i popolamenti si succedono sulla stessa superficie. Ogni fase ha una durata variabile, da qualche decina a centinaia di anni. Le varie fasi si distribuiscono su superfici assai ridotte, spesso a mosaico nell’intero complesso forestale.

La durata di tutte le fasi varia secondo le specie: nelle leccete del Supramonte di Orgosolo in Sardegna, il ciclo si completa in 500 anni.

La complessità strutturale di una foresta è legata al tempo. I parametri di altezza e volume sono pertanto collegati al tempo, come lo sono lo sviluppo degli apparati radicali o la maturazione sessuale dei singoli componenti.

Il suolo, una componente fondamentale dell’ecosistema forestale, è senza dubbio legato al tempo, infatti un suolo forestale, per raggiungere stadi evoluti, richiede molti decenni, se non secoli. Di riflesso bastano poche ore di fuoco e di pioggia per cancellare un “lavoro” di secoli.

La presenza del legno morto (la necromassa epigea e ipogea), che agisce sulla biodiversità, qualità dei suoli, ecc., è legata al tempo.

Il tempo consente di migliorare la funzionalità dei boschi, e di accrescere il valore estetico, se decifrato come monumentalità.

L’azione di restauro non si esaurisce in un dato momento (es. al termine di una piantagione), ma va pensata come l’innesco di un processo che si svilupperà nel tempo: che l’uomo avvia e poi la natura completa. A una prima azione di riduzione degli impatti dell’uomo seguono via via altri momenti migliorativi interconnessi tra loro.

Non si può, pertanto, equiparare concettualmente il “restauro” a una semplice “piantagione”.

Queste prime notazioni sono importanti per definire il significato del restauro delle foreste degradate.

Tutti gli interventi di restauro (dalla messa a dimora di alberi al cambiamento della forma di governo di un bosco) sono legati al tempo. In qualche caso è il fattore basilare. Ad esempio, la conversione dei cedui in fustaie di faggio determina, progressivamente, l’incremento dello stoccaggio di C, il maggiore ritorno al suolo di sostanza organica, l’incremento della diversità animale e vegetale. Tuttavia a seguito dell’intenso sfruttamento e di uno stato di degrado molto pronunciato, non sempre si può affermare una nuova fustaia. In altre parole non è sempre possibile intraprendere una azione di restauro attivo (quella che vede l’azione diretta dell’uomo), in quanto le condizioni topo-orografiche o pedologiche o lo stato dendro-cronologico del bosco, non lo consentono. In questi casi si può fare affidamento solo al tempo (che esula da un orizzonte temporale umano), per cui si parla di restauro passivo (senza alcuna azione o influenza da parte dell’uomo), dal momento che qualsiasi azione diretta sarebbe improponibile sul piano fattuale e della sostenibilità economica.

Se ci vogliono solo poche decine di anni per vedere i primi effetti sulla difesa dalla erosione del suolo, ce ne vogliono centinaia per ripristinare le funzioni ecosistemiche di un bosco degradato e avere ripercussioni sul benessere dell’uomo. La diversità specifica si accresce con il passare il tempo anche se l’uomo può “accelerarla”.

Il restauro forestale è una azione politica di grande respiro e valore etico, che implica un impegno su un ampio arco temporale che coinvolge le future generazioni.

Per approfondire

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Corbezzoli e Corbezzole

Il corbezzolo (Arbutus unedo L.) è un componente della macchia mediterranea. Arbusto o alberello sempreverde, generalmente di 1-4 m di altezza, ma che può arrivare fino a 12 m, con un diametro della chioma di 5 m.

Una pianta che ha richiamato l’attenzione di Giovanni Pascoli tanto da dedicargli una Ode “… i bianchi fiori metti quando rosse hai già le bacche… o verde albero italico…).

La corteccia: è bruna e ruvida, e si sfalda in scaglie scoprendo un sottostante strato di colore bruno-rossastro.

Le foglie sono oblunghe ellittiche, acuminate, a margine seghettato, coriacee, di colore verde lucido nella pagina superiore.

I fiori terminali riuniti in grappolini pendenti, di colore bianco-giallastro, compaiono in autunno (ottobre-dicembre).

I frutti (corbezzole) sono delle bacche globose,  con  superficie  granuloso-tubercolata, di 1-2 cm di diametro, del peso di 3-8 grammi, di colore dapprima  verde,  poi  giallo,  a  maturità  arancio  scuro  o  rosso-vivo dalla  polpa tenera  e  zuccherina.  La  maturazione completa avviene in ottobre-novembre, la persistenza sulla pianta dura fino a dicembre. Tordi e merli si nutrono delle bacche mature e contribuiscono alla disseminazione.

Elevata capacità di ricaccio dalla ceppaia, soprattutto a seguito di incendi.

Il corbezzolo si trova dal livello del mare fino 500 m, ma può spingersi fino a 1200 m nell’Italia meridionale.

Esigente di luce, resiste all’aridità e fino a  -15 °C.

Presente in diversi tipi di suolo, ma é specie tipica dei suoli acidi e drenati.

Il corbezzolo diviene dominante nella macchia mediterranea, insieme all’erica, a seguito di ripetuti incendi, costituendo una specifica associazione piroclimacica.  

La macchia mediterranea è stata da sempre governata a ceduo e il trattamento era il taglio a raso con rilascio di matricine (50). Il corbezzolo ha un ruolo importane nella composizione dei boschi per la produzione di legna da ardere di qualità. In Maremma spunta attualmente, un prezzo maggiore (circa 1 euro a quintale) rispetto alle altre specie.

In Toscana i boscaioli hanno favorito in passato la propagazione di questa specie,  frazionando la ceppaia. La tecnica era nota in Maremma (Toscana) con il nome di scosciatura del pollone. Ossia si rilasciava un moncone del pollone più grosso (gli altri venivano tagliati), dando poi alla base, un colpo con l’occhio della scure, in maniera da determinare il distacco di parte della ceppaia dall’apparato radicale, in tal modo ricacciavano nuovi polloni radicali che rinnovavano la pianta.

Nelle Colline Metallifere (Toscana), i cedui di corbezzolo venivano trattati con un turno di 25 anni per la produzione di carbone.

Nelle Cerbaie (Toscana), il corbezzolo veniva rilasciato come matricina. Gli assortimenti erano legna da ardere, fascine, paleria, ”calocchie” per capisaldi e sostegni di filari di viti.

Le foglie sono ricche di tannini e sono molto appetite da ovini e caprini (il valore nutritivo è di 0,51 U.F. per kg di sostanza secca, un valore simile a quello del fieno comune).

Il legno è duro, compatto, pesante, dal durame rosso bruno. Veniva utilizzato dagli ebanisti per lavori di intaglio e al tornio, di alto potere calorifico. Il carbone è ottimo.

Le corbezzole sono ottime, consumate fresche in autunno, ricche di zuccheri e vitamina C. Nell’aretino servivano per fare il “vinello”, il vino dei poveri, quelli che non lo potevano fare con l’uva. E dalla macerazione in acqua dei frutti, fermentazione  e  distillazione,  si  ottiene   un’  acquavite a  bassa  gradazione  alcoolica.

Dalle corbezzole si possono ottenere confetture, gelatine, sciroppi, canditi, aceto aromatizzato.

Specie mellifera da cui si ricava il  pregiato “miele amaro” (Sardegna e Toscana).

Pianta ornamentale, rustica, molto decorativa. Può essere impiegata, sia ad alberello che con fusto policormico, allo stato isolato o in piccoli gruppi o per costituire quinte sempreverdi. La maggiore visibilità e pregio estetico è in autunno-inverno per la presenza contemporanea dei colori verde (foglie), bianco (fiori) e rosso, giallo (frutti). Resistente all’inquinamento. Il corbezzolo può essere associato a eriche, olivo, leccio, rosmarino ecc. In vivaio si trovano piante alte da 0,40 a 2 m. Consigliata la messa a dimora a fine inverno-inizio primavera.

Nel restauro post-incendio per la rapidità  di  accrescimento  e  di  sviluppo  delle  radici,  trova impiego  nel  consolidamento  di  terreni  scoscesi, contribuendo  efficacemente  alla  difesa  del  suolo  da  fenomeni  erosivi.

Per approfondimenti

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Global Forest and Tree Restoration

Dall’ 11 al 12 ottobre 2022 si é tenuta a Roma, nella prestigiosa sede dell’ Accademia Nazionale  dei  Lincei, una conferenza internazionale sugli alberi e sulle foreste, sulla scia dei due grandi eventi che si sono tenuti nel 2021:  G20 Summit di Roma e UN Climate Change Conference (COP26) di Glasgow.

I temi affrontati riguardavano il ruolo delle foreste per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. In particolare della conservazione delle foreste, del restauro di quelle degradate e della piantagione di nuovi alberi.

Se si dovesse riassumere in una sola parola il senso della conferenza si potrebbe usare compliance, senza per questo voler sminuire l’alto livello dei relatori e dei loro contributi.

Ha fatto eccezione l’ affermazione ‘dirompente’ di Ernst-Detlef SCHULZE (Max Planck Institute for Biogeochemistry, Germania) secondo cui la piantagione di 3 miliardi di alberi in Europa entro il 2030 aumenterebbe la superficie forestale solo dello 0,3%: e questo non avrebbe alcun effetto sul clima. Uno stimolo per aprire un dibattito scientifico, per valutare meglio tali affermazioni, se si tiene conto che, in molte regioni prossime al Mediterraneo, si perseguono obiettivi molto più ambiziosi: dai 10 miliardi di alberi dell’Arabia Saudita ai 50 miliardi del Medio Oriente.

A livello italiano, un evento come questo potrebbe rappresentare un motivo in più per considerare il tema del restauro delle foreste, dal momento che se ne parla da oltre 10 anni senza alcun riscontro fattivo. 

Un tema importante in Italia, se non altro per affrontare su base scientifica (e non su pulsioni di altra natura) le situazioni disastrose prodotte dagli eventi estremi di questi ultimi anni: dalla Tempesta VAIA del 2018 e dalla seguente diffusione del Bostrico tipografo nelle Alpi, agli incendi di questo anno che hanno interessato un po’ tutto il Paese.

C’è da augurarsi che il nuovo Esecutivo in via di formazione in questi giorni, cambi pagina rispetto al passato, e metta tra le priorità della politica forestale, il restauro delle foreste degradate per la difesa del territorio e delle attività umane.

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La foresta di Paneveggio: la difficile strada del restauro

Una foresta demaniale di 2700 ettari, posta al limite nord orientale della provincia di Trento, inclusa nel Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino.

Fustaia adulta di abete rosso

Foresta famosa per l’abete rosso e in particolare per il legno di risonanza, tanto caro ai liutai di tutto il mondo, da qui il nome di Foresta dei Violini. L’abete rosso occupa la fascia da 1500 a 1900 m, poi cede il posto al larice e al pino cembro.

Legno di risonanza

Una foresta legata alla sua valle, di Fiemme, che ha visto incrementare l’interesse turistico negli ultimi anni. Il legno rimane, se non la principale risorsa economica, la sua ragione di essere, il dato storico, culturale, di cui la Magnifica Comunità di Fiemme è la gelosa custode.

In Val di Fiemme, il trattamento dei boschi di abete rosso tradizionale era il taglio a fratte (strisce allungate) da 500 a 5000 m2 distanziate, una dall’altra di 20-30 anni, eseguite in direzione contraria ai venti dominanti.

Cataste di legno di abete rosso

Una foresta che ha visto in pochi anni due eventi disastrosi. Il primo dovuto a una tempesta di vento: Vaia, nel 2018 (con 60000 m3 di alberi abbattuti).

Un tratto di foresta, dopo il passaggio di Vaia

Il secondo, poco tempo dopo e tutt’ora in corso, dovuto alla pullulazione del bostrico tipografo, ancor più grave, legato a fattori logistici (rimozione del legname abbattuto) e climatici (valori abnormi di temperatura).

Un aspetto della foresta attaccata dal bostrico tipografo

Di fronte alle tempeste di vento a 150 km all’ora c’è poco da fare. Contenere l’avanzata del bostrico si può senza farsi troppe illusioni, e si stanno già mettendo in atto le misure necessarie. Dove è scomparsa la foresta non rimane che il restauro, se si vogliono accelerare i tempi della natura, sempre in senso relativo.

Un lavoro impegnativo. Si deve tener conto, come in altre foreste, del surplus di ungulati (qui il cervo la fa da padrone) che richiede costose recinzioni (dell’ordine di 70 euro a metro lineare), altrimenti le nuove generazioni di alberi non avrebbero alcun futuro. Se non ci fosse stato questo problema, il costo della messa a dimora di una piantina sarebbe stato in media di 8 euro, ossia una cifra più che sostenibile.

Si deve valutare bene l’obiettivo che si vuole raggiungere, in altre parole quale composizione specifica si vuole scegliere negli interventi di restauro attivo (a carattere artificiale). Certo, a primo acchito, si preferirebbe aumentare la componente delle latifoglie (salici, sorbi e poche altre specie) per rendere più resilienti le nuove foreste, almeno laddove possibile. Dall’altro si dovrebbe sempre assicurare la dominanza dell’abete rosso dal momento che si tratta di un ambiente a clima continentale, caratterizzato da temperature rigide, forti sbalzi termici e aria relativamente secca. In altri termini, alle quote di Paneveggio, la partita ecologica si gioca per le conifere tra l’abete rosso e, a salire, il larice (in parte il pino cembro).

Non solo, bisogna curare anche la disposizione delle piante e la distribuzione nello spazio, viste le condizioni particolari legate alla quota, ai venti, alla neve. Al riguardo gli Svizzeri ci hanno insegnato l’idea della disposizione a piccoli gruppi.

Interventi diversificati e scalari nel tempo per non ripetere gli errori del passato: le monoculture di conifere della stessa età.

Nelle aree restaurate sono necessarie importanti opere di recinzione per la protezione dagli ungulati

Queste considerazioni consentono di riaffermare che il restauro delle foreste richiede un approccio sistemico, integrato. In questo caso, secondo un’agire responsabile, si dovrebbe controllare prima la popolazione di ungulati, per poi passare alla fase della rigenerazione vegetale, sia attraverso procedure naturali che artificiali, solo così sarà possibile evitare le costose recinzioni e si potrà lasciare che una quota delle nuove generazioni vada “persa” ad opera degli ungulati.

Il restauro è d‘obbligo per mettere in sicurezza il territorio, gli abitati e le infrastrutture, per conservare una valenza paesaggistica e economica. La logica di lasciar fare alla natura (restauro passivo) va bene solo nelle zone inaccessibili e comunque dove ci sono limiti operativi.

Forse la nuova generazione si dovrà rassegnare a un paesaggio diverso da quello che la nostra generazione ha visto, con la dominanza dell’abete rosso. Non sarà un dramma. Si sa, i paesaggi non sono immutabili, cambiano e cambieranno. Certo potrebbe cambiare l’economia legata al legno, ma l’uomo ha la capacità di reinventarsi.

Per approfondimenti:

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Riserva della Valbona, Paneveggio (Trento)

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100 anni di ricerca forestale nazionale

Nel 1922 fu istituita la Regia Stazione Sperimentale di Selvicoltura, una istituzione di ricerca nazionale nel settore forestale, giusto un anno prima che venisse promulgato il RDL n. 3267 del 1923 che regolerà per decenni le vicende forestali italiane. Si costruisce una stretta sinergia tra la ricerca e l’autorità forestale nazionale. Una struttura di supporto alla politica forestale nazionale incentrata in quel periodo, sulla difesa del suolo, sul rimboschimento e ricostituzione dei boschi degradati e sull’aumento della produzione legnosa. Uno dei principali filoni di ricerca iniziali, fu l’introduzione delle specie forestali esotiche, per poter allargare il numero delle specie da impiegare nei rimboschimenti, o da usare  al posto di quelle autoctone penalizzate da agenti patogeni (C. mollissima e C. crenata al posto di Castanea sativa) o con maggiori capacità produttive.

Una serie di riforme si susseguiranno negli anni del dopoguerra: nel 1968 la Stazione di Selvicoltura si trasforma e si riorganizza in Istituto Sperimentale per la Selvicoltura, nel 2004 nasce il CRA-Centro di ricerca per la selvicoltura, e nel 2017 diventa CREA-Centro Foreste Legno inglobando più strutture di ricerca. Nel frattempo avvengono importanti cambiamenti istituzionali tra cui la frammentazione delle competenze in materia forestale tra Regioni e Ministeri.

Importanti contributi scientifici riguarderanno oltre le specie forestali esotiche, i diradamenti e il trattamento dei boschi di conifere, la conversione in alto fusto dei cedui, l’arboricoltura da legno, il miglioramento genetico degli alberi forestali.

La peculiarità della ricerca forestale statale, rispetto a quella universitaria, é quella di creare un sistema di aree sperimentali permanenti dove monitorare nel tempo (decenni) tutti gli indicatori utili per valutare  l’esito di un trattamento, della potenzialità produttiva di una specie e via dicendo.

La ricerca forestale statale, ossia applicata, ha la sua ragione di essere se può avere ricadute pratiche soprattutto a livello pubblico, per questo la sinergia con un Ente unico che si occupa di foreste é fondamentale.

Le nuove sfide della ricerca che ruotano attorno al grande filone della resilienza delle foreste ai cambiamenti climatici, impongono una riforma del settore forestale nel senso della ri-centralizzazione e dell’accorpamento delle competenze a livello nazionale in un unico soggetto istituzionale.

Va da sé, che i risultati della ricerca hanno comunque una valenza universale

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In memoria di Adriano Gradi

E’ morto Adriano Gradi (1930-2022). Con lui scompare uno dei grandi forestali italiani del ‘900.

Uomo di punta del Corpo Forestale dello Stato. Padre della moderna vivaistica forestale, suo è il progetto e l’avviamento dello Stabilimento Semi e Vivaio Forestale di Pieve S. Stefano (Arezzo) dove si raccoglieva, si lavorava il seme degli alberi italiani e si producevano le piantine destinate al rimboschimento.

Un punto di riferimento non solo italiano. Numerose delegazioni di forestali di tutto il mondo visitavano la struttura per acquisire il know how, memoriale la visita dei forestali cinesi “vestiti tutti uguali”.

Uomo pratico e nello stesso tempo uomo di cultura. I suoi scritti di vivaistica forestale sono sempre un riferimento credibile. Uomo impegnato nelle istituzioni e nella società civile, sportivo a tutto tondo: dalle macchine alle biciclette.

A lui sono stato legato dalle vicende della vita. “Sostituii” Adriano all’Università di Reggio Calabria. Adriano lasciò Reggio Calabria, non tanto per aver finito il “triennio”, ma per aver trovato una mattina un collo mozzato di gallina davanti alla porta nella sua casa di Scilla. Conosceva il linguaggio dei segni che regola la vita da quelle parti, e che avrebbe dovuto cambiare aria e trovò una sponda all’Università di Padova, dove concluse la sua carriera universitaria. Qualche decennio più tardi a me capitò di peggio, ma io non trovai una sponda in nessuna Università, per cui fui costretto ad andare in pensione anticipatamente. Ancora, ad Adriano mi ha legato l’esperienza della costituzione di un consorzio forestale tra privati nel Chianti. Un’impresa ardua che solo un “corridore” come lui poteva intraprendere e incoraggiare.

Raccogliere il testimone di Adriano Gradi non è facile in questo difficile momento storico. Se l’Italia riuscirà a “rialzarsi” e a “stabilizzarsi” potrà riprendere, tra le pieghe di una sana politica forestale, quell’idea di creare tre grandi stabilimenti e vivai forestali per far fronte alle esigenze nazionali. I fatti hanno dimostrato che le dichiarazioni dei politici di voler “piantumare” milioni di alberi, erano improvvide, perché non tenevano conto che la vivaistica forestale nazionale “stava boccheggiando” e che non c’erano le piantine necessarie. Al di là di questo, una politica forestale nazionale lungimirante dovrà comunque rafforzare la vivaistica forestale per avere una scorta “strategica” di piantine, se non altro per far fronte ai disastri naturali sempre più frequenti.

Grazie Adriano, riposa in pace.

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Per una politica forestale italiana 2022

A nessuno sfugge l’importanza della prossima tornata elettorale del 25 settembre 2022. Indipendentemente dall’esito, una cosa è certa, c’è bisogno di cambiamenti, di riforme, di dare seguito a impegni già presi, di confermare una credibilità riacquisita, grazie a Mario Draghi. Di aprire una stagione dei doveri e, dispiace dirlo, mettere da parte quella dei diritti, anche se non possono essere negati quelli legittimi. Non si può rimanere in un colpevole equilibrismo per non scontentare nessuno. Per il bene della comunità qualcuno d’ora in poi dovrà essere scontentato e accontentarsi di quello che la comunità potrà dargli.

E’ difficile parlare di politica forestale in un Paese che vanta una tradizione forestale che è ben documentata dal periodo romano. E’ difficile parlare di politica forestale nell’Italia post-unitaria che vanta personaggi di alto profilo come: Luigi Luzzatti, Arrigo Serpieri, Manlio Rossi Doria, Amintore Fanfani, Giuseppe Medici. E’ difficile parlare di politica forestale in un Paese dove il bosco rappresenta il 37% della superficie territoriale, con numerose tipologie forestali e 118 diversi alberi da gestire. Ma bisogna fare uno sforzo. Ognuno per le sue conoscenze e capacità è chiamato a dare il proprio contributo per il bene della comunità nazionale.

In questa occasione non si può parlare ai  “politici” e alla “gente” usando il linguaggio degli addetti ai lavori, si corre il rischio di perdere tempo. Non è il momento dei tecnicismi e dei dettagli è il momento delle sintesi e di parlare sì, di massimi sistemi.

Le proposte per essere credibili devono poggiare sulle realtà oggettive, sulle invarianti, altrimenti sono parole in libertà. Non un elenco di cose che non vanno, ma di cose a cui mettere mano. Ecco una riflessione-proposta.

 La carenza delle statistiche forestali. Non sono aggiornate, sono inaffidabili per programmare azioni, finanziare iniziative. I dati del terzo l’Inventario Forestale Nazionale del 2015 ancora non sono disponibili nella loro completezza. Si “viaggia” ancora con quelli del 2005.

Governance frammentata e inefficiente. La materia forestale è ripartita tra il Ministero della Transizione Ecologica che si occupa di ambiente, il Ministero della Cultura  che si occupa di paesaggio. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che svolge un ruolo di coordinamento, monitoraggio, controllo, ma conta poco perché ha perso le competenze operative in materia forestale che in precedenza aveva il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Il perno della gestione forestale è affidata, in base alla riforma del Titolo V della Costituzione (L.C. 3/2001), alle Regioni, ognuna con una sua normativa. Le differenti capacità organizzative  sono state la causa di inefficienze e sprechi di denaro pubblico. Si sono create disuguaglianze tra i cittadini a livello nazionale per la diversa funzionalità tra le Regioni del nord e quelle del sud, queste manco a dirlo, totalmente inefficienti.

Il disinteresse della classe politica ai temi forestali. Questo è stato evidente negli ultimi anni e nel dibattito sulla riforma del Testo unico sulle foreste- TUFF (DL 34/2018). In questa situazione, nei cosiddetti tavoli di concertazione, tendono a prevalere le lobby più forti, ora quella del legno, ora quella ambientalista, ora quella dei sindacati agricoli. Tutte apportatrici di preziose istanze, ma nessuna interessata al bene comune. E’ mancata una regia politica. E non poteva essere diversamente, visto che nell’ultima legislatura ha prevalso una classe politica mediocre, attenta solo ai suoi interessi particolari, a breve termine. Invece il sistema forestale italiano ha bisogno, urgente, di statisti, che sappiano guardare ai tempi lunghi e agli interessi generali.

Proprietà e vincolismo. Il  34% dei boschi è di proprietà pubblica, il 66% appartiene ai privati. Una proprietà frammentata, la dimensione media delle aziende agricole attive con boschi è di 10,6 ettari. Tenendo conto che un’azienda forestale inferiore a 1000-1500 ettari non ha un senso imprenditoriale. Il 100% delle foreste sono soggette a vincolo paesaggistico, l’85% ha il vincolo idrogeologico, il 28% ha un vincolo di carattere naturalistico che riguarda le foreste “migliori”. In altre parole: le foreste sono più che protette ma i troppi vincoli burocratici appesantiscono la gestione e originano un contenzioso eccessivo.

Il bel paesaggio. L’azione dell’uomo sulla natura ha generato il mosaico di un paesaggio culturale unico: i lariceti pascolati delle Alpi, le pinete litoranee, i castagneti da frutto, i querceti del Chianti, le pinete della Sila, le sugherete della Sardegna, i boschi di olivo selvatico fra i nuraghi, fanno la differenza rispetto a molti altri Paesi europei. Non si possono gestire come fossero un’area naturale, come imporrebbero le norme europee, perché non lo sono e hanno un’altra originalità che è di tipo “culturale”, non “naturalistica”. E questo va fatto capire a Roma e a Bruxelles.

L’invariante ambientalista. E’ forse il punto cruciale in una società Occidentale. Finito il primo periodo ottocentesco elitario, finito il periodo idealista delle masse, della seconda metà del ‘900, si è passati al periodo dell’integralismo, al fideismo religioso. Le cui radici  vanno ricercate New Left (nuova sinistra radicale) che vuole la trasformazione dei valori culturali delle società occidentali.  Una nuova religione che, nell’Occidente, stà prendendo il posto di un cattolicesimo debilitato, interessata a entrare nei centri decisionali del potere, a dettare le agende della politica ambientale. Da qui la corsa di imprenditori e politici a chi è più “verde”. Il greenwashing, è obbligatorio, come l’inglese, per conquistare spazi di mercato, consensi e fondi pubblici. E’ falso e strumentale voler accostare questo ambientalismo con le posizioni di Papa Francesco: l’ecologia integrale non si coniuga con l’integralismo agnostico ecologista. La grande stampa, dell’alta borghesia liberale e radicale, è affascinata dai temi “ambientali”, e “informa” e “orienta” il cittadino medio, anche sulle questioni forestali. Il  nuovo ambientalismo è un fenomeno radicalizzato in tutto l’Occidente democratico, ma che non attecchisce nelle autocrazie dell’ Oriente. Occorre uno stato di attenzione nelle campagne dei gruppi ambientalisti per discriminare le battaglie legittime da quelle strumentali per altri fini. E per questo è doveroso pretendere una comunicazione corretta in materia forestale dalla televisione pubblica.

La percezione culturale delle foreste nel epoca contemporanea. L’Italia si è trasformata da una società rurale a una società post-industriale urbanizzata, il 67% degli italiani vive in città. Ciò ha comportato una svolta culturale ed etica dell’’opinione pubblica cittadina che vede il bosco non più come produttore di servizi diretti (legno ecc.) ma di servizi indiretti (fissazione dell’anidride carbonica, conservazione della biodiversità, del suolo, delle risorse idriche). Un popolo più orientato a “salvaguardare” che a “usare”.

Le foreste urbane e periurbane. In conseguenza dell’urbanesimo il “verde” delle città svolge un ruolo molto importante perché è legato alla salute dei cittadini e ha un maggiore interesse mediatico. Per questo il PNRR ha stanziato per le città metropolitane, molte risorse finanziarie, per rifare le vecchie alberature pericolose, per disegnare nuovi spazi verdi, per recuperare luoghi abbandonati e discariche, per migliorare il clima delle città. Riportare la natura in città è un’idea buona, si evitano movimenti tra le città e le foreste naturali, si garantisce l’accesso al “verde” alle categorie più deboli.

La conservazione dei boschi notevoli.  In Italia ci sono boschi di elevato pregio naturalistico e di interesse scientifico: le faggete vetuste patrimonio UNESCO, i pini loricati del Pollino, i boschi vetusti di leccio di Calabria e Sardegna. Molti altri “conosciuti”, non sono stati ancora “scoperti” dagli imbonitori televisivi. Questo impone misure serie di conservazione che vanno dalla gestione su base scientifiche, al monitoraggio e al controllo. Il conservatorismo estremo che predica il “rinselvatichimento” come fossimo nell’ America boreale, è fuori luogo, in un Paese con 3000 anni di storia di uso intensivo del territorio, ad alta densità abitativa.

Il restauro delle foreste degradate. Non tutti boschi italiani sono in buono stato vegetativo e funzionale soprattutto nel Meridione. Sono quelli che hanno pagato il prezzo di un intenso sfruttamento più per necessità che per avidità, sono quelli colpiti da incendi, da eventi meteorici e climatici intensi, da  attacchi parassitari. Non importa tanto l’aspetto quantitativo, che non si conosce, infatti la forbice è troppo ampia: 1 a 2 milioni di ettari, quanto la loro ubicazione a cui è legata la salute umana e la salvaguardia delle infrastrutture e dei centri abitativi. Si parla molto di una generica “difesa del suolo”, ma si fa poco, si opera a “chiazze” e non basta, ci vogliono interventi diffusi e articolati per essere efficaci. Il restauro non è una idea ecologista, un termine subdolo per “musealizzare” la natura, ma è un ammortizzatore sociale, prima ancora di un intervento ecologico di ri-funzionalizzazione degli ecosistemi forestali degradati. Restaurare significa rendere i boschi più resilienti ai cambiamenti climatici, in grado di fissare meglio la C02, conservare la biodiversità, depurare l’aria e le acque, proteggere il suolo. Il restauro significa anche migliorare la qualità dei nostri boschi, produrre legname di qualità, senza andarlo a cercare in altri Paesi. Per il Testo unico forestale-TUFF (DL 34/2018) non rientra tra le priorità. Mentre il restauro degli ecosistemi forestali degradati è uno degli obiettivi della Strategia Forestale Nazionale e della Strategia Nazionale sulla Biodiversità in accordo con le rispettive strategie europee. Insomma un capitolo tutto da scrivere.

L’economia legata al legno segna il passo. Il 37 % della superficie dei boschi è abbandonato. Le segherie non lavorano più. Si taglia solo un quinto di quello che si potrebbe tagliare, mentre si importa l’80% del fabbisogno di legno per l’industria. Di questo non si sa bene quanto sia di origine illegale. La filiera del legno italiana genera appena l’1,6% del PIL. Produciamo soprattutto legna da ardere, ma importiamo anche quella. Il mercato trainante è oggi quello delle biomasse a scopi energetici che non si regge su una sana economia ma sugli incentivi pubblici e sulle “furbizie di scala”. Un mondo talvolta opaco come stanno dimostrando le inchieste della Magistratura in Calabria.

In un epoca segnata dalla fine della globalizzazione (e nello specifico dalla importazione del carbone dall’Argentina), si impone una svolta per l’utilizzo responsabile dei boschi. Bisogna rivalutare il legno nazionale e i prodotti secondari legati al bosco (funghi e tartufi, castagne e pinoli, sughero e altri).

Un nuova strategia politica

Paul Romer il premio Nobel per l’economia 2018 sostiene che dalla produzione di idee dipende lo sviluppo nel lungo periodo di una nazione. Ecco idee per una politica forestale: competenza, autorevolezza, motivazione, e distacco. Non una politica del compromesso, ma della differenza vista la complessità del sistema-foresta italiano. La politica forestale non ha bisogno di enunciazioni ma di fatti concreti, di una guida politica autorevole, non di soggetti incompetenti che procedono a “fari spenti”.

I valori etici al centro della politica forestale. Occorre superare il concetto di “sostenibilità” per introdurre quello di “responsabilità”, che, a differenza del primo, implica un impegno etico a non “distruggere” il “bene foresta”. Questa generazione ha l’obbligo morale di migliorare e conservare le risorse naturali affinché ne possano usufruire anche le future generazioni.

Una politica nazionale nel contesto europeo e internazionale. Una politica forestale nazionale che si deve armonizzare con quella europea, ma rispettando la propria peculiarità che l’Ue deve riconoscere. Una politica che deve riconoscere i trattati internazionali in materia di interessi planetari, nella libertà di fare scelte coerenti nazionali.

Partire da una grande riforma istituzionale

Bisogna porre al centro dell’agire il concetto di bosco quale “bene di interesse nazionale”.

Bisogna riformare il titolo V parte II della Costituzione, per ri-centralizzare la materia forestale.

Bisogna creare un Ministero per l’albero e le foreste che riassuma tutte le competenze in materia, visto che si tratta di un settore sempre più strategico anche nel quadro internazionale. Avvalendosi di un braccio operativo, un nuovo organo tecnico, una Authority con sue strutture territoriali di riferimento. La sburocratizzazione delle procedure operative, ora frammentate tra troppi ministeri ed enti, parte da qui. Una Authority di riferimento non solo per tutte le funzioni di coordinamento, tutela, ma anche di gestione diretta di alcune foreste storiche nazionali e di quelle da “ri-trasferire” da Regioni e demani  pubblici soprattutto quando non sono più in grado di farlo secondo standard accettabili. Questo ruolo dello Stato-Imprenditore-Insegnante è importante, come avevano già capito i legislatori di inizio ‘900. Le grandi aziende forestali (secondo l’intuizione di San Pier Damiani per promuovere le comunità rurali e le proprietà agro-forestali monastiche) sono indispensabili senza le quali non si può fare una buona gestione dal punto di vista etico, economico, sociale ed ecologico.

Bisogna rafforzare e qualificare sul piano tecnico i Carabinieri Forestali (D.L: 177/2016) ma  svincolarli dalla gestione diretta delle foreste.

Bisogna riscrivere meglio la Strategia Forestale Nazionale del 9 febbraio 2022.

Bisogna riesaminare tutta la normativa nazionale dal Codice del Paesaggio (DL 42/2004, e segg.), al TUFF  (DL 34/2018) e i suoi decreti attuativi.

In sintesi si tratta di riportare la politica e la gestione di tutte le foreste italiane al livello nazionale, disarticolata secondo tre principali linee direttrici: 1) “Gestione responsabile delle foreste”; 2) “Conservazione delle foreste con valenze naturalistiche e culturali”; 3) “Restauro delle foreste degradate.

La riflessione scaturisce da queste letture:

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Ceduo composto: riconoscimento di un paesaggio culturale, di un bene immateriale?

Che cosa è il ceduo composto

Il ceduo composto è una forma di coltivazione dei boschi di latifoglie. Rappresenta una forma di governo (in selvicoltura si intende il modo in cui si rinnovano i boschi: se attraverso un processo gamico-fustaia o agamico-ceduo) “mista”. Altri hanno usato l’espressione “intermedia”. Il senso è che: dalla coesistenza,  sullo stesso bosco, delle due forme di governo ne scaturisce una terza sua propria. Il soprassuolo è costituito da “polloni” nel piano dominato e da piante di alto fusto (“matricine”) di età/dimensioni diverse nel piano dominante. L’arte selvicolturale sta nel mantenere l’equilibrio tra la componente “cedua” (coetanea) e la componente “fustaia” (disetanea), nel regolare il complesso rapporto tra le diverse matricine e, tra loro e nel loro insieme, e il ceduo. Ecco l’originalità del ceduo composto. Ecco la sua autonomia nella sistematica selvicolturale. Ecco la specificità della tecnica operativa.

Questa forma di gestione del bosco aveva, nell’Italia centrale, il duplice obiettivo di produrre assortimenti legnosi (traverse ferroviarie, legname da carradore, travature, legna da ardere, carbone) e la ghianda per l’allevamento del bestiame allo stato brado.

La distribuzione geografica

Il ceduo composto “tipico” era diffuso soprattutto in Toscana (colline senesi e aretine), con estensioni a Umbria e Marche nei boschi di querce. Anche se non bisogna dimenticare che non mancano segnalazioni in altre regioni per specie e tipologie diverse.

Le criticità

I cambiamenti economici e sociali (deruralizzazione,) stanno portando a una perdita di saperi e delle tradizioni locali. Le proprietà sono spesso cambiate: dalle famiglie di agricoltori locali ai gruppi stranieri con interessi extra-agricoli. Le vecchie fattorie, condotte a mezzadria, policolturali, si sono ora focalizzate sulla produzione vitivinicola e sulle attività agrituristiche. I boschi che servivano ad occupare i contadini nel periodo invernale e per ricavare i prodotti primari di sussistenza (riscaldamento e cibo), sono diventati un “peso” che viene ora abbandonato, ora oggetto di tagli irrazionali, da parte ditte boschive straniere, da qui lo stravolgimento della struttura di questi boschi. In sintesi sono venuti meno i presupposti che stavano alla base del ceduo composto.

Questi interventi nella patria del ceduo composto si potrebbero evitare

Il mondo accademico ha fatto la sua parte. Il disinteresse si è sovrapposto alla riluttanza. Non ha pensato all’aspetto culturale e paesaggistico. Si è soffermato su considerazioni superficiali di mera lettura sociale, stoppando la riproposizione del ceduo composto come ‘falso storico’.

Prova ne sia che nella prima metà del ‘900 vi è un proliferare di articoli nella letteratura tecnica e scientifica,  poi i lavori sul ceduo composto sono stati quasi inesistenti. 

Sul piano selvicolturale ci sono fondate perplessità circa le soluzioni alternative. Se si applica un taglio a raso con rilascio di matricine di 1 o 2 turni (ceduo matricinato) si impoverisce la struttura (e a ben ragione gli ambientalisti possono parlare di ‘boschi stecchino’) e si dequalifica un paesaggio forestale storicizzato. Se si continua a insistere sul  “ceduo intensamente matricinato” (Regolamento Forestale della Regione Toscana) si rischia di confondere le idee con il vero ceduo composto.  La conversione all’altro fusto dei boschi di roverella può andare bene solo su aree circoscritte e non può essere generalizzata, se non esclusa. L’abbandono esula dalla selvicoltura.

Dal momento che se ne sta perdendo la memoria e le tracce nel territorio, il punto è quello ri-appropriarsi di una coltura e di una cultura della gestione dei boschi che va scomparendo.

Le opportunità

In termini generali un riconoscimento a livello nazionale e internazionale potrebbe: avere una ricaduta sul piano economico, promuovere una gestione responsabile del territorio e svolgere una azione preventiva contro incendi e altre calamità.

Nello specifico significa:

-elevare il valore paesaggistico, della biodiversità, di habitat;

-valorizzare i prodotti locali tradizionali, come le carni di suino (Cinta senese e comunque suini neri) dall’allevamento brado in bosco;

-diversificare la produzione legnosa (legna da ardere, carbone, biochar);

-potenziare le attività venatorie nei confronti degli ungulati e quindi contenere i danni alle colture agricole di pregio (vigneti);

-ampliare l’offerta dei servizi ricreativi e ambientali (costante copertura del suolo, escursionismo, raccolta funghi, asparagi ecc,);

-porre fine ai tagli irrazionali di bassa qualità estetica e selvicolturale che penalizzano l’attrattività turistica.

Le prime cose da fare

Colmare la carenza conoscitiva. Chiarire cosa si intende per ceduo composto, quali sono i criteri di gestione e i parametri di riferimento (età, numero e distribuzione delle matricine, ecc).

Analizzare le norme forestali attuali e gli incentivi disponibili per verificare se consentono la tutela del ceduo composto o se favoriscono trasformazioni e conversioni.

Dimostrare l’origine del ceduo composto (epoca, zona, ecc.), attraverso documenti storici, cartografie, immagini. Mappare le “tracce” fisionomico-strutturali, ancora percettibili nel paesaggio.

Le possibili azioni consequenziali

Definire l’area geografica del ceduo composto con l’inventario delle aree meglio conservate e di quelle suscettibili di miglioramento.Adeguare la normativa forestale. Elaborare un disciplinare di gestione. Incentivare le aziende che si impegnano a conservare o a ripristinare il ceduo composto.

Chi prende l’iniziativa?

Difficile dare una risposta in questa situazione politico-istituzionale. E’ già molto se si comincia a parlare di questo argomento.

Il ceduo composto é bello anche sotto la neve (Chianti senese)

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